Cenere: ritorno in terra slava ai tempi dell’isolamento

Il racconto nasce in pieno lockdown e affronta tematiche a me molto care e usuali, il tema dell’assenza e del distacco ma anche della dislocazione e la perdita della patria. C’è una donna amata che muore, una madre e una nonna, e un viaggio quasi impossibile da affrontare in piena quarantena per cercare di tener fede alle ultime volontà della donna. Sullo sfondo il dramma dell’esodo giuliano dalmata, pagina che provoca ancora dolori e imbarazzi nel nostro paese. E un viaggio comunque da fare, che riavvicinerà padre e figlio e terminerà a pochi chilometri dai luoghi in cui la donna è nata. Trieste, che è già Balcani e il suo porto in cui speranze e disperanze hanno trovato transito.

“Sai che tua nonna avrebbe voluto così”.
“Ma papà, con questa situazione è impossibile, come facciamo a superare il confine se non si può uscire neanche di casa?”.
“Ma dico, Santo Dio, neanche il rispetto delle volontà degli anziani. Già non l’abbiamo potuta vedere prima di morire, né accompagnarla al cimitero… almeno le sue ultime volontà andrebbero rispettate … è disumano!”.
“Disumano è il virus”, il ragazzo china il capo.
“No, disumano è l’uomo, figlio mio. Si può restare umani anche in una situazione drammatica. Tua nonna ha sofferto molto nella sua vita, non merita anche questo”.
“Papà, nonna è morta, non sente più niente, questa cosa forse riguarda più te. Il mare è uguale dovunque… perché non lo facciamo qui?”.
Il padre scuote il capo: “Figlio mio, forse questo è il tuo mare, il nostro ce l’hanno rubato”.
Il figlio preferisce non rispondere e guarda fuori dalla grande vetrata. Poca gente per strada, la data fatidica del 4 maggio non ha cambiato di molto le nuove abitudini della gente; si gira ancora con le mascherine, le persone continuano a evitarsi sui marciapiedi, la paura dell’altro è diventata insita nell’individuo.
Guarda suo padre abbattuto sul divano, lo sguardo perso nel vuoto, chissà a cosa pensa, forse a quella terra perduta quando era piccolo, che lui ha rivestito di leggenda, o forse a nonna che da allora ha sempre preferito non parlare di quanto avvenuto dall’altra parte dell’Adriatico.
Dalla enorme vetrata in alcune giornate terse si vedono quelle terre tanto amate, dal porto di Pesaro ogni estate partono brevi crociere verso le isole della Croazia; si domandò se fosse ancora così.
“Papà, tra poco vado al porto e chiedo se ci sono i catamarani per Rovigno. Da lì il paese non dovrebbe essere lontano vero?”.
Il padre annuì.
Il ragazzo dopo qualche minuto uscì di casa. Era bello essere fuori casa nonostante quella maledetta mascherina che impediva quasi di respirare e in molti casi di riconoscere le persone che ogni tanto s’incrociavano a testa bassa.
In pochi minuti arrivò al porto di Pesaro. Aveva già preso il catamarano per le isole croate che si trovano davanti all’Istria, la terra natale della nonna, e una volta da Rovigno era andato in taxi verso il piccolo villaggio dove l’anziana aveva vissuto i suoi anni migliori ma anche i suoi più grandi dolori.
Non lo aveva mai detto a nessuno, però. “Buon giorno, partono ancora le barche verso la Croazia?”. Il ragazzo lo guarda come fosse un marziano: “Scusi ma secondo lei con tutto quello che è successo, ci sono persone che vogliono fare la gita di un giorno nelle isole con mascherina, amuchina e plexiglas?”.
C’era tanta comprensibile amarezza nelle parole del ragazzo; una stagione persa, e forse neanche l’ultima, un virus che comunque per chissà quanto sarebbe rimasto a dettare i tempi della ripresa.
“Quindi l’unica soluzione è andare in macchina”.
“Penso proprio di sì. Il problema è che… beh lo sa… in teoria non si può uscire dalla regione, figurarsi attraversare un confine… a meno di non pagare un tassista accomodante”.
Suo padre non avrebbe mai accettato questa soluzione, pensò tra sé il ragazzo, non avrebbe mai rischiato.
Tornato a casa, trovò suo padre intento a guardare nel vuoto, verso un punto imprecisato dell’orizzonte; avrebbe voluto abbracciarlo, ma gli uomini non piangono e non si abbracciano. Adesso poi, pensò, non si abbracciava più nessuno.
“Papà, proviamo a partire in macchina? Vediamo dove riusciamo ad arrivare, magari arriviamo a Trieste e lì spargiamo le ceneri in mare… in fin dei conti, Trieste è anche terra slava no?”.
Il padre non accennò a una reazione, ma si voltò verso il figlio, le guance rigate di lacrime: “Come vuoi tu, figlio mio”.
La sera del giorno successivo, consumata una frugale cena, si misero in viaggio verso Trieste.
Guardò il padre che da poco si era addormentato, i segni della mascherina sul volto reclinato verso il vetro della macchina: sembrava davvero stanco, vinto, come lo era stata la nonna negli ultimi giorni di vita.
Disumanità, solo quello aveva visto in quei giorni: una disumanità non voluta ma necessaria che aveva scavato solchi profondi nelle persone. Le città erano i luoghi più tristi con i loro spazi vuoti, serrande ancora chiuse, altre che non avrebbero più riaperto. Nonostante quanto dichiarassero i politici e gli esperti, aveva vinto il virus.
Superata Mestre, ancora più triste che in altri tempi, presero la strada verso Trieste.
Era ancora l’alba quando arrivarono nella zona del porto. Svegliò il padre e si avviarono verso il pontile che dà direttamente sul mare, lo stesso mare che bagna anche le coste slovene e croate.
Per la prima volta pose un braccio sulle spalle del padre, lo sentì singhiozzare. Insieme aprirono l’urna e iniziarono il rituale. Il sole iniziò a sorgere fregandosene di un altro giorno di silenziosa passione per gli uomini.
Le ceneri della nonna volarono nel vento e si depositarono nel mare ritornando a essere parte di una storia secolare.
E fu silenzio, come diceva Amleto.

Il racconto ha partecipato al contest “Il prima e il dopo – Un diario letterario collettivo ai tempi dell’isolamento forzato

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